L'attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una determinata attività non rientra nell’ambito di operatività dell’art. 483 c.p.
IL CASO
In data 31.03.2020 l'imputato Tizio, a bordo di autocarro, veniva fermato e sottoposto a controllo dai Carabinieri, in relazione alle misure per il contenimento della pandemia da Covid 19. Invitato a predisporre l'autocertificazione dichiarava di occuparsi di assistenza caldaie e di essere in procinto di recarsi dal collega (che poi smentirà categoricamente la cirostanza!!) per il ritiro di alcuni pezzi di ricambio.
Nessun dubbio può porsi, quindi, circa il fatto che l'intenzione dichiarata da Tizio nel modulo di auotocertificazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della polizia Giudiziaria.
Alla luce di ciò, il Pubblico Ministero chiedeva al GiP del Tribunale di Milano di emettere decreto penale di condanna nei confronti di Tizio.
LA DECISIONE
Sebbene «non vi siano dubbi circa il fatto che l’intenzione dichiarata dall’imputato nel modulo di autocertificazione non abbia trovato riscontro nei successivi accertamenti della Polizia giudiziaria» – si legge nella sentenza – «va, tuttavia, ESCLUSO che tale falsità integri gli estremi del delitto di cui all’imputazione, in quanto l’art. 483 c.p. incrimina esclusivamente il privato che attesti al pubblico ufficiale “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”».
Dopo aver richiamato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui «sono estranei all’ambito di applicazione dell’art. 483 c.p. le dichiarazioni che non riguardino “fatti” di cui può essere attestata la verità subito ed immediatamente (hic et nunc) ma che si rivelino mere manifestazioni di volontà, intenzioni o propositi», il Giudice ha osservato come tale conclusione appaia confermata nel caso di specie:
– dal dato testuale, «giacché la nozione di “fatto” non può che essere riferita a qualcosa che già è accaduto ed è perciò, già in quel preciso istante, suscettibile di un accertamento, a differenza della intenzione, la cui corrispondenza con la realtà è verificabile solo a posteriori»;
– sotto il profilo teleologico, «giacché la norma è finalizzata ad incriminare la dichiarazione falsa del privato al p.u. in relazione alla sua attitudine probatoria, attitudine che evidentemente non può essere riferita ad un evento non ancora accaduto»;
– in un’ottica sistematica, «dalla stessa normativa in tema di autocertificazioni, all’interno della quale i “fatti” sono indicati, quale oggetto di possibile dichiarazione probante del privato, insieme agli stati e alle qualità personali, vale a dire a caratteristiche del soggetto già presenti al momento della dichiarazione».
Ne discende – si legge nel provvedimento – che «mentre l’affermazione nel modulo di autocertificazione da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de quo, la semplice attestazione della PROPRIA INTENZIONE DI RECARSI in un determinato luogo o di svolgere una certa attività NON PUO' ESSERE RICOMPRESA nell’ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei “fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”».
LA CONCLUSIONE
LA DICHIARAZIONE DI UNA MERA INTENZIONE nell'ambito di un modulo di autocertificazione NON PUO' RIENTRARE nell’ambito applicativo dell’art. 483 c.p., CHE SI RIFERISCE AI SOLI FATTI GIA' AVVENUTI.
Nel caso di specie Tizio non ha certo attestato un fatto gia' accaduto nella realta' esteriore ma si è limitato a dichiarare una propria volonta', che si è rivelata a posteriori priva di riscontro.
Non riusulta dunque integrato il delitto di cui all'art. 483 c.p. e di ogni altro reato in materia di flalso, fermo l'eventuale rilievo quale autonomo illecito amministrativo ex art. 4 D.L. 19/2020.
Alla luce delle considerazioni di cui sopra si impone l'assoluzione dell'imputato perchè il fatto non sussiste.